“Ci sono tantissimi terreni che non vengono coltivati in queste montagne trentine e possono diventare un’occasione importante sia per i giovani migranti ma anche i ragazzi italiani che stanno cercando un lavoro. Potrebbero mettersi assieme, creare delle piccole cooperative dove tutti offrono le proprie capacità, dalla forza fisica alla propensione per il marketing. È un progetto che voglio portare avanti e mi sono già messa la lavoro”.
Agitu Ideo Gudeta, attivista etiope per l’ecologia ed i diritti umani, migrante e imprenditrice agrosilvopastorale.
Oggi bisogna raccontare una storia che racchiude tante storie. È quella di Agitu Ideo Gudeta, una donna etiope quarantatreenne che da dieci anni ormai abitava in Italia, a Frassilongo, attivista, migrante, pastora e imprenditrice. Per parlare di Agitu si usa il tempo passato, perché il 29 dicembre 2020 è stata assassinata e brutalizzata da un uomo dipendente della sua azienda agrosilvopastorale La Capra Felice. Come lei stessa raccontava, giungeva in Italia nel 2010 “con duecento euro in tasca” ed un permesso per motivi di studio, per rifugiarsi dal regime etiope, perseguitata per il suo impegno politico contro il land grabbing, ovvero l’acquisizione coatta delle terre dei piccoli contadini, le speculazioni e gli espropri forzati a danno dei piccoli allevatori, da parte delle multinazionali. Aveva già studiato sociologia presso l’Università di Trento, aveva imparato l’italiano e per questo aveva richiesto l’asilo in Trentino, sfuggendo all’esecuzione in Etiopia grazie alla soffiata di un funzionario. Molte sue compagne attiviste e compagni attivisti trovarono la morte nel loro Paese. Agitu è stata testimone militante contro il colonialismo e la violenza strutturale. La sua storia racconta delle dinamiche del colonialismo contemporaneo in atto in Africa e delle grottesche forme (verbali e fisiche) di colonialismo che ogni giorno si giocano sul corpo delle donne, ma soprattutto racconta dell’impatto che hanno le buone pratiche sulle visioni dei luoghi e dei processi territoriali.
Abbiamo il dovere di porre storie come la sua non sul piano dell’eroismo, dell’eccezione alla regola, di non ridurre quindi Agitu a “simbolo dell’integrazione”. Il ruolo dell’eroina, il marchio del simbolo a cui tutti, nelle ultime ore spasmodicamente, attingono, è una banalizzazione dell’integrazione che rende quest’ultima fenomeno unilaterale e annulla lo sforzo sinergico tra chi accoglie e chi viene accolto. Gli esponenti della propaganda xenofoba compiaciuti e sollevati dal fatto che ad assassinare l’imprenditrice sia stato il suo dipendente reo confesso ghanese, non comprendono che questo tratto della storia è ininfluente per una degna narrazione della vita di Agitu. La nostra coscienza non è salva, non possiamo liquidare tutto riassumendo barbaramente “è una violenza importata”, “non è una violenza autoctona”, “il suo vicino italiano che nel 2018 l’aveva aggredita è estraneo ai fatti”. Si tratta di una violenza che deve squarciare il sentire di tutte le comunità, di un colonialismo maschio che nei luoghi marginali, nei paesi, è più pulsante. Una donna, anche se professionalmente accreditata, se istruita, se in posizione apicale rispetto ai colleghi uomini, fa fatica e definirsi libera da insinuazioni, atti umilianti o che mirano a screditare la sua credibilità riducendola a pezzo di carne, riducendola a femmina, riducendola a utile ma non indispensabile. È la storia di tutte le minoranze e dei modi in cui esse vengono attaccate da più fronti, a volte inconsapevolmente. Agitu Ideo Gudeta non è stata un “simbolo di integrazione”, non era “la regina delle capre”, non era “l’immigrata ambientalista”: perché titolare così un articolo di giornale è banalizzare la storia di una donna come lei? Perché è mettere sotto al tappeto i limiti delle nostre società, dei sistemi di accoglienza, dei Governi, deformando i percorsi migratori e le pratiche interculturali virtuose.
Buon viaggio Agitu Ideo Gudeta.